Fare una maratona è un’esperienza che segna la vita tra un prima e un dopo. Le sfide che accogli, il modo in cui ti confronti con i tuoi limiti e decidi di affrontare i problemi pur di portare a casa un risultato e continuare a sperare fino all’ultimo minuto, all’ultimo centimetro di poter accarezzare un sogno ti fa rendere conto dell’esatta immagine di te riflessa come in uno specchio. Ci si conosce meglio, ci si misura e si conosce un po’ meglio l’altezza dell’asta del prossimo obiettivo.

La Maratona di Londra ha restituito l’immagine di una runner alla quale non piace stare a guardare e che vuole buttarsi nella mischia e portarsi al limite. Ma ha restituito soprattutto l’immagine di un runner che, cimentandosi per la prima volta in solitaria in maratona, pone l’asta sempre molto in alto con se stesso e non smette mai di lottare anche quando si rende conto che l’obiettivo ormai è svanito e si permette di assaporare, comunque, il raggiungimento di una tappa intermedia. Già in attesa della prossima rivincita.

Quest’anno, la maratona di Londra è stata graziata dalla pioggia, ma non dal freddo e dal vento chilly che si insinuava tra i grattacieli e sorprendeva i runner ora da destra, ora da sinistra divertendosi in modo impietoso.

L’attesa a Greenwich è stata forse la parte più difficile perché faceva un gran freddo e non c’era molto spazio sotto la tenda per tutti. Come in tutte le gare dove la partenza è decentrata, la sveglia all’alba, quelle due ore possono diventare snervanti e far consumare energie preziose. Alle 10.10, finalmente, la partenza. Un fiume di 36.000 runner che comincia a muoversi da tre punti differenti per poi ricongiungersi in un  unico flusso. Questa maratona la ricorderò sicuramente per il calore, ma soprattutto il frastuono che le persone accorse a guardare hanno creato lungo ogni singolo metro del percorso. Sentirsi soli è stato praticamente impossibile. Il primo tratto della Maratona era quasi in discesa per cui è stato facile cedere alla tentazione di lasciar andare le gambe alle sensazioni decisamente positive che emanavano. Parte della strategia abbozzata con il coach prevedeva il tentativo di giocare il tutto per tutto per abbattere il muro delle 4 ore. Avendo delle gambe così reattive, mi è venuto spontaneo agganciare il pacer delle quattro ore, accertarmi che i Garmin fossero sincronizzati e lasciar correre i chilometri. I primi 19 chilometri, sebbene fossero in the middle of nowhere, al di là del fiume, erano costellati di bande musicali, gruppi o solamente curiosi che si erano allineati lungo il percorso nell’unico intento di divertirsi ed intrattenere i maratoneti. Arrivare a Tower Bridge non è stato molto faticoso. Sul ponte, temevo di più il vento ed il freddo ma la coltre di persone stipate per incitare le persone era tale da far percepire a mala pena il cambio di pendenza. Scesi dal ponte, il frastuono è aumentato. Ad ogni curva ci si sentiva quasi risucchiare dalla folla che sembrava impazzita di fronte alle maggiori star di Hollywood. La curva a destra ha aperto lo spiraglio al vento che ha caratterizzato nettamente il percorso lungo i Docklands. 

Ogni maratoneta lungo il percorso incontra il proprio muro. E’ inevitabile ed imprevedibile perché non è detto che si riproponga allo stesso modo e allo stesso chilometraggio. Riconoscerlo è il primo passo, ma la parte più difficile resta capire come gestirlo per non perdere la lucidità, ma, al contrario, come domarlo per conviverci fino alla fine. Avendo passato quasi tre ore al ventiduesimo miglio, tra il trentaseiesimo e il trentasettesimo chilometro, ho visto parecchie persone continuare a correre nonostante la loro testa, i loro occhi e le loro gambe fossero altrove. Ho visto le Atlete Elite, gli Atleti Elite, ho visto Paula Radcliffe. Ho visto persone cercare conforto ed ispirazione dalle stranezze che li circondavano o dal tifo degli spettatori, così come ho visto l’estrema lotta dei runner portatori di handicap percepire l’ammirazione e l’estrema stima di chi li circondava per l’impresa che stavano portando a termine. Ancora adesso, un brivido percorre la mia schiena nel rivedere alcuni fotogrammi o nell’immaginare l’ardente passione che li ha portati fino a lì.

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Il tempo passava. Dall’Italia mi avevano avvisato che i tempi del mio maratoneta erano strepitosi: Personal Best nei primi 10 chilometri, Personal Best alla mezza maratona. Più i segnali erano positivi più sorgevano in me sentimenti contrastanti: da una parte ero fiera di una tale prestazione senza la zavorra della sottoscritta che preferisce contenersi, dall’altra cominciavo ad essere un po’ preoccupata, in quanto la maratona non perdona la troppa audacia o meglio non perdona l’audacia non calcolata al decimo di secondo e Nicola stava registrando nuovi tempi.

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Fino al venticinquesimo al ventisettesimo chilometro non ci sono stati intoppi, poi, all’improvviso la sensazione di aver finito la benzina. Non un muro graduale, ma un muro. Ho tentato di variare il ritmo gara, ma gli sprint duravano sempre meno. Ho agguantato l’ultimo gel che avevo. Ho riconosciuto alcuni luoghi a me familiari, ma al trentaduesimo ero punto a capo. Mi dava fastidio il frastuono assordante della folla, cominciavano  a farmi male le caviglie ed il tendine d’achille infiammato ed avevo finito i gel. Ho avuto attimi in cui mi sono rimproverato per averci provato, per averci creduto veramente. Ci sono stati attimi in cui ho pensato di mollare, prendere la metropolitana e farmi trovare in albergo. Ma non ero qui per questo. Qualcuno mi aveva detto: “Al massimo rallenta, ma non mollare!” Ho cercato la massima concentrazione, un passo più lento ma abbastanza costante, ma il pacer delle quattro ore ormai lo avevo perso.

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Quando l’ho visto arrivare non sono riuscita a scalfire la sua concentrazione. Ho gridato, mi sono sbracciata, l’ho chiamato, ma niente. “Com’era? Ti è sembrato stanco? E’ un po’ calato dal trentesimo chilometro…” mi chiedevano dall’Italia. La sua espressione era talmente concentrata che sarebbe stato difficile da interpretare. Il passo non sembrava subire alterazioni da dolori o contratture, il calo poteva essere fisiologico, ma mancavano ancora sei chilometri.

Gli ultimi dieci chilometri sono stati una vera sofferenza. Non ne avevo più nella testa e nelle gambe. Volevo solo che tutto finisse al più presto, ma non volevo mollare. Non si fa. Non succede in maratona. Al trentaquattresimo ho benedetto una signora che offriva banane al ciglio della strada. Raggiunta la vista del Big Ben e fatta la curva a destra verso Westminster Abbey ho avuto un sussulto di orgoglio, mi sono rovesciato la bottiglietta d’acqua in testa, l’ho gettata per terra e ho accelerato. Ho capito che mancava veramente poco e che l’ultimo tratto meritava di essere fatto con dignitosa velocità. Ma ho sbagliato perché lo sprint è durato qualche centinaio di metri e perché costeggiare St. James park non è proprio una passeggiata da niente. A Buckingham Palace avreri voluto onorare la regina con un saluto o un buffetto, ma la mia attenzione era focalizzata unicamente al countdown dei metri. 800, 400, 200 metri. E’ finita. Ricordo di aver pensato: E’ finita! L’orologio segnava 4 ore e 11 minuti. La delusione è durata solo il tempo di rendermi conto di aver dato veramente tutto, di aver osato anche oltre quello a cui avrei potuto ambire. Non è bastato, è vero, ma la maratona insegna che ogni cosa ha un suo tempo prestabilito e che non è sempre un bene voler forzare necessariamente la storia dei propri Personal Best.

La maratona insegna ad avere un prima e un dopo. Mentre aspetti e mentre soffri ti prometti di non cedere mai più al richiamo delle sirene incantatrici, ma appena varchi la finish line, guardi l’orologio comici a pensare dove poter raggiungere il prossimo obiettivo. Marca un prima e un dopo  perché quelli che erano i tuoi limiti sono diventati nuovi punti di partenza e perché le emozioni e la strada che hai percorso in quel tragitto ti ha aperto maggiormente la visione di quale tipo di uomo tu sia e quali siano i sogni che ti fanno rimanere a galla anche al cospetto dei tuoi muri.

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Articolo scritto e redatto da FRANCESCA TOGNONI | Tutti i diritti sono riservati

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