Quali sono i pezzi cult che sono entrati nella storia della moda tra il XX e il XXI secolo? Il Moma ce lo racconta con una nuova sensazionale mostra, Items: is fashion modern? Già nel 1944, durante la Seconda Guerra Mondiale il museo di New York cercava di rispondere a questa domanda: “Are Clothes Modern”? I vestiti sono moderni?

Bernard Rudofsky, il curatore della mostra di allora, si soffermava sul desiderio di conformismo, sull’opposizione tra gonna e pantaloni, su eccesso e superfluo. I cambiamenti sociali riflessi o anticipati dalla moda.

Come il famoso museo ha da sempre la missione di collezionare, interpretare ed esporre le migliori creazioni dell’arte moderna, così la moda è ricerca dell’eleganza, conformismo, esibizione ostentata, trasgressività.

Essa è un sistema complesso con un proprio simbolismo: un fenomeno non soltanto psicologico e culturale, ma anche e soprattutto storico ed economico-sociale. Moda come scultura, come opera d’arte, comunicazione.

Il sesto piano del MoMa, fino al 28 gennaio 2018, è interamente dedicato ad origini, storia, impatto sulla società. Connessione con la cultura, estetica, politica, economia, tecnologia. Un allestimento con più di 330 capi, divenuti pezzi iconici. La moda non solo fa parte del design, ma ha anche conseguenze su modelli etici e antropologici.

Il percorso espositivo affronta così temi chiave della moda contemporanea: la silhouette che cambia, l’intersezione tra la moda e lo sport, i nuovi materiali e le idee pionieristiche.

Gli oggetti sono raggruppati in gallerie: il percorso comincia con una zona dedicata all’idea di un corpo e una silhouette mutante: la taglia, il genere, l’immagine.

Il concetto di bellezza nel Novecento cambia continuamente. Durante la Belle Epoque il canone estetico è quello della Gibson girl, con la sua espressione imbronciata, il seno prosperoso e i fianchi larghi. Il corsetto con le stecche di balena faceva assumere al corpo delle donne l’inconfondibile forma ad S. La donna Gibson indossava bluse in mussola con collo montante e cravattino, le maniche rigorosamente a gigot (strette ai polsi), la gonna in tessuti più leggeri come la mussola che terminava a campana. Il tutto esaltato da una vita ultra sottile e movenze sensuali.

Si passa poi alle Flapper girls, le ragazze alla moda degli Anni Venti, sottili e magrissime,  che ascoltavano jazz, ballavano al ritmo del Charleston, fumavano e chiacchieravano amabilmente.

Chanel, in questo periodo, promuove il jersey, prendendo spunto dalle divise dei marinai. La stilista crea il “little black dress”. L’abito compare per la prima volta su Vogue America nel 1926, vicino a un mare di abiti con colori sgargianti e ricami superflui, così come voleva la moda del primo dopoguerra. Celebrato dalla rivista come il capo destinato a diventare “una sorta di uniforme per le donne di tutto il mondo e di qualunque estrazione sociale”, The Little Black Dress viene considerato la “Ford” di Coco, divenendo il simbolo della povertà di lusso e di una semplicità chic.

Il Little Black è la metafora stessa della moda: è stato reinventato senza fine nel corso degli anni ed è rappresentato da esempi che vanno dal primo grande classico di Chanel del 1926, a quelli di Christian Dior, Versace, Givenchy e Philippe Starck, fino al Kinematics Dress realizzato con una stampante 3D e commissionato dal museo, come esempio di avanguardia nello studio dei materiali e il loro adattarsi alle silhouette del corpo.

Il Little di Chanel 1925-1927,  Charles Creed 1942, Dior 1950, Givenchy 1968, Arnold Scassi 1966.

Con gli anni Trenta, la crisi economica conduce ad una femminilità morbida e voluttuosa. Seducente. Per poi tornare, con la Seconda Guerra Mondiale,  asciutta e longilinea. La storia corre veloce. Gli anni Cinquanta vedono nascere guêpière e reggiseni a balconcino che costringono il corpo femminile fino al 1968, quando in occasione dell’elezione di Miss America, un gruppo di femministe butta il reggiseno nell’immondizia e gli dà fuoco. Come se il non indossare un capo d’abbigliamento potesse veramente donare la libertà politica, sociale, lavorativa. La liberazione del corpo e della donna è completa.

Ma nel 1990 viene lanciato  il Wonderbra, reggiseno push up che promette un sogno: donare anche alle coppe più esili forme turgide, fiorenti e voluminose.  Gli stilisti trasformano la lingerie in un capo da indossare a vista, da guardare, da mostrare.

L’alleanza tra moda e tecnologia diventa sempre più stretta: i giubbotti in Gore-Tex, il tessuto sintetico con alte capacità impermeabili e traspiranti, gli scarponi da neve Moon Boot, dopo sci ambidestro dai colori pop, realizzati in schiuma di poliuretano e in nylon, veri icona del design italiano (ad oggi ne sono stati venduti 22 milioni di esemplari), lo zainetto Prada, comodo, pratico,  in tessuto pocono, una particolare lavorazione del nylon a trama molto fitta, solitamente utilizzata per realizzare i paracaduti militari.

Un’altra sezione della mostra è dedicata all’emancipazione e alla ribellione: i riflettori si accendono sull’hoodie, la felpa con cappuccio tipica dei teenager afro-americani, dentro cui nascondersi come atto introspettivo o timido o per impaurire, oppure sui pantaloni in pelle di Guy Baldwin, sulle bandane, sulle t-shirt tatuaggio.

Items: is fashion modern? è caratterizzata da queste dicotomie continue: la ribellione  e l’emancipazione, la modestia e la esaltazione, il potere e la sua assenza.

Il burkini swimwear di Ahiidae le flip-flops by Havaianas. Credit Mark Wickens for The New York Times.

Il burkini swimwear di Ahiidae le flip-flops by Havaianas. La felpa hoodie della Champion. Credit Mark Wickens for The New York Times (c)

Passando dal profumo Chanel n. 5 al Cartier Love Bracelet, dal Red lipstick Revlon del 1952 al Rolex, dai pantaloni “Capri” a quelli per fare yoga, dalla borsa Birkin di Hermès al walkman Sony del 1979, dagli anfibi Dr. Martens ai jeans Levi’s 501, ai guayabera, kente, burkini, kippah, kilt e sari, in un viaggio internazionale e cosmopolita, Items è una mostra storicamente consapevole, volta ad un esercizio di sensibilizzazione verso le culture non occidentali. A volte con delle classificazioni un po’ troppo “ingrigliate”, ma che comunque ben rappresentano il continuo mutare del costume.

Laduma Ngxokolo’s boldly-colored, South African update of the Aran fisherman classic, Araba Stephens Akompi, known as Stylista,  e Loza Maléombho. Credit Mark Wickens for The New York Times

Chanel No. 5, shown here in a 1959 photograph by Weegee, is one of the 111 iconic wearable designs in "Items: Is Fashion Modern?" at New York's Museum of Modern Art. Photo: Getty Images

Lo Spanx, guaina indossata anche sotto gli abiti del red carpet; Chanel No. 5, nel 1959  immortalato da Weegee, Photo Getty Images (c); il Wonderbra

Il percorso espositivo si conclude con la sezione “suit”. Da Yamamoto ad Armani, fino alla universale e democratica T-shirt bianca, manifesto ideologico di ogni designer. Messaggio rock, funky, romantico, musicale, pretty, sensuale. Un indumento che perfettamente aperto ha la forma di una T.

03 (1)Una parte dell’esposizione ospitata al MoMa è dedicata agli oggetti che saranno le icone del futuro: 30 prototipi realizzati da designer e marchi, famosi o emergenti, che hanno preso vita dalla reintepretazione di alcuni pezzi iconici e sono stati plasmati con materiali all’avanguardia, come la gonna a matita.

La moda è arte? Non esiste purtroppo una risposta unica, ma l’esposizione invita alla riflessione, considerando il fatto che lo stesso Giorgio Armani non si reputa un artista. Fare moda significa disegnare un abito portabile, che faccia sentire a proprio agio – e speciale – chi lo indossa. La moda deve essere prima di tutto semplice, pura, chiara ed offrire nuove stimolazioni. A lungo gli esperti si sono interrogati, senza mai arrivare ad una soluzione univoca. E’ innegabile, comunque, che le contaminazioni e influenze, tra moda e arte, ci hanno regalato negli anni iconiche creazioni di moda.

E cosa pensare delle inevitabili contaminazioni tra moda e design?

Gillo Dorfles, artista e critico d’arte, maestro dell’Estetica italiana del Novecento, encomiabile nella sua lucidità mentale a 107 anni, autore di uno dei testi intellettualmente più nobili afferma che non ci sia niente di più scottante del design.
Il design può essere considerato arte? La radice del problema sta nella distinzione tra arte pura e arte utilitaria: design e architettura sono arti con funzionalità. Il design è “parzialmente” arte, una forma di progettazione con un quoziente artistico e un quoziente di marketing, perché lo scopo dell’oggetto è sempre quello di essere venduto. L’oggetto di design non può essere un oggetto d’arte: deve corrispondere alla sua funzione. Un vestito può essere quindi considerato al pari di una scultura un’opera d’arte? L’oggetto di design non deve essere creato con lo scopo di diventare arte, ma deve continuare a rispondere alla sua funzione.

Per questo alcuni capi sono intramontabili e trovano spazio in Items. I Moon Boots, gli stiletti di Manolo Blahnik, le Nike Air Force 1, lanciate nel 1982, le Adidas Superstar, il verniciato e abbagliante piumino Moncler della Monestier-de-Clermont,  che all’inizio produceva  sacchi a pelo imbottiti. Oggetti non solo di moda e di design, ma senza dubbio utili.

L’artista e lo stilista si scambino codici visivi mescolando ispirazioni e soluzioni formali: Alexander Mc Queen “visitava” i dipinti di Hugo Van der Goes e i ritratti dell’epoca elisabettiana, Prada e Moschino riprendono i grafismi, i colori e lo stile di Andy Wharol e il pop pointilism di Roy Lichtenstein, Lisa Perry si cimenta nell’Espressionismo astratto di Jackson Pollock.

Quello che sicuramente più colpisce della mostra Items è la quantità di oggetti che rientrano a pieno diritto sotto la definizione di “moda”, ma, in fondo, tuttavia, se ogni età ha avuto il suo gusto, il Novecento e il nostro nuovo secolo si distinguono non solo per la loro modernità, ma anche perché viviamo nell’era dei moltissimi gusti.

Una curiosità. Il team organizzativo è composto da giovani donne, che, per l’inaugurazione, hanno scelto di vestirsi con lo stesso item, il numero 51 della lista: la jumpsuit, oggetto divenuto negli anni Settanta simbolo di liberazione dalla tirannia dei generi grazie a Rudi Gernreich.

La moda è una potentissima forma di espressione creativa e personale che può essere approcciata da diverse angolazioni – ha spiegato Paola Antonelli, senior curator, Department of Architecture and Design, e director of Research and Development del MoMA– ed è senza dubbio anche una forma di design con la sua identità più forte imprigionata nelle negoziazioni tra forma e funzione, significati e obiettivi, tecnologie automatizzate e artigianalità, standardizzazione e personalizzazione, universalità ed espressione del singolo. Come design la moda esiste al servizio degli altri.

Jumpsuit di Stephen Burrows, 1974 e di Richard Malone, 2017. Credit Vincent Tullo per The New York Times.

Il Kinematics Dress

Il Kinematics Dress

Il team di Items. Da sinistra: Kristina Parsons, Anna Burckhardt, Paola Antonelli, Stephanie Kramer and Michelle Millar Fisher. Credit: Vincent Tullo for The New York Times.

Credits: Google e The New York Times | Tutti i diritti sono riservati

Articolo scritto e redatto da Daniela Rigoni | Tutti i diritti sono riservati

 

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