Come tutti sappiamo AIRC, l’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro, è da sempre attiva a favore del progresso della ricerca oncologica e nella diffusione di una corretta informazione, che passa attraverso pubblicazioni, incontri e donazioni on-line. Il tema è uno dei più importanti ed è per questo che ho deciso di intervistare Antonio Pierini, un giovane talento italiano che, grazie a una borsa di studio AIRC ha potuto svolgere l’attività di ricercatore presso la Stanford University e, dopo oltre quattro anni, attraverso una borsa di studio iCARE, cofinanziata da AIRC e dall’Unione Europea, è riuscito a rientrare a Perugia, sua città di origine, dove ha ripreso la sua attività di ricercatore all’interno dell’università dove ha conseguito la laurea e il dottorato.

Antonio è nato circa 35 anni fa in provincia di Perugia, sposato con due bambini, adora la musica di Bruce Springsteen. Potrebbe essere un uomo come tanti altri ma ha scelto di essere un ricercatore e questo gli ha letteralmente cambiato la vita.

Essere un ricercatore è una scelta che faccio ogni giorno attraverso lo sguardo dei pazienti affetti da tumore. La ricerca è l’unico strumento che ho in mano, come medico, per offrire speranza e migliorare la qualità di vita dei malati.

Queste sue parole mi hanno colpito e ho deciso di parlargli per capire a fondo la sua professione e soprattutto la passione che lo spinge ogni giorno a fare del bene.

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1. Quando hai deciso di diventare un ricercatore? Quale è stato il “la” che ti portato a questa scelta?

Ci sono stati due momenti importanti in questa scelta. Da studente universitario avevo ambizioni chirugiche, ma dopo un tirocinio in ematologia nel laboratorio della Professoressa Cristina Mecucci, ho scoperto quanto fosse affascinante capire la causa delle malattie dei nostri pazienti e quanto questo permetta di sviluppare nuove cure. Da quel momento mi sono dedicato all’ematologia e al suo studio. In seguito, durante i miei anni di specializzazione, ho conosciuto “R”, un ragazzo introverso affetto da leucemia che se ne è andato combattendo e soffrendo. Eravamo amici. Un’amicizia atipica perchè figlia della sua condizione di malato e della mia di medico che non lo mollava un istante, ma un’amicizia vera. Mi sono quindi detto che non mi sarei accontentato, che avrei dovuto fare di più.

2. Cosa significa AIRC per te?

Per me AIRC significa Sostegno, Coraggio e Passione. Sostegno a noi ricercatori e ai pazienti affetti da cancro. Coraggio di fornire opportunità reali a chi promette impegno, ma non sa dove può arrivare. Passione per la ricerca, la scienza e la cura.

3. Quale è stata la più grande soddisfazione che fare il ricercatore ti ha portato nella vita?

Spero quella che verrà. Per adesso, però, è per me enorme soddisfazione aver realizzato che anche il mio impegno può essere apprezzato e può essere utile nel mondo della ricerca. Il sostegno di AIRC ne è la più grande prova.

4. Quale è stato il momento più significativo della tua esperienza alla Stanford University?

Difficile scegliere, perchè l’esperienza a Stanford è stata estremamente formativa e intensa per cui ancora oggi a volte ho una grande nostalgia. In ogni caso ne approfitto e rispondo con due momenti, uno professionale e uno che riguarda la famiglia. Quello professionale è stato il mio ultimo seminario di laboratorio dove ho capito che avevo prodotto lavori importanti, ma dove ho anche capito che avevo imparato molto. Quello familiare è stato condividere con mia moglie Sabrina l’arrivo dei nostri due fantastici piccoli Leonardo Emanuele e Lavinia Rosa.

5. Cosa hai portato in Italia di questo periodo vissuto all’estero?

Personalmente l’esperienza all’estero, oltre che accrescere le mie conoscenze scientifiche e tecniche nel mio ambito di ricerca, mi ha permesso di aprire gli orizzonti e apprezzare punti di vista differenti. Ha cambiato il mio modo di osservare persone e metodi. Spero quindi che queste acquisizioni possano essere un mezzo utile nell’affrontare i futuri ostacoli nella ricerca.

6. Quanto è stato emozionante ritornare nell’Università dove hai conseguito laurea e dottorato?

Per me è stato come tornare a casa. In questa Università sono cresciuto ed ho coltivato la mia passione per la ricerca. Sono pertanto incredibilmente orgoglioso di esserne oggi parte e di poter svolgere qui la mia attività.

7. Quando parli del tuo lavoro ai tuoi figli che parole usi? Cosa gli racconti?

I miei figli compieranno 4 e 2 anni tra poco, ma chiaramente già realizzano che il papà lavora e che va ad aiutare le persone malate. Racconto loro degli strumenti che uso come il microscopio e mostro loro guanti e provette. Il “grande” è curioso e chiede perchè, lui vuole far “il dottore degli animali”. La “piccola” mi abbraccia prima di partire e credo che già capisca che per la nostra famiglia è importante.

8. Se dovessi definire il concetto di In Viaggio con la Ricerca, per quello che ha significato per te, come lo esprimeresti?

Andare oltre i confini geografici e della scienza. Viaggiare da ricercatore significa apprendere nuove tecniche, sviluppare nuovi stimoli e scoprire come l’obiettivo di migliorare la cura del cancro sia comune a tanti giovani di diverse nazioni ma con grandi capacità, giovani con cui lavorare è una vera occasione di crescita professionale e personale.

9. Cosa consiglieresti a chi oggi sceglie di essere un ricercatore?

Di seguire la passione che lo ha portato a questa scelta. Di non guardare lingua o confini. Di cercare di convincere chi lo ama e chi gli sta accanto che ne vale la pena. Potrebbe non avere successo e non fare una grande carriera, ma ne uscirà comunque ricco e si sentirà vivo.

10. Quale è la domanda che avresti desiderato e quale risposta mi avresti dato?

Come vorresti che fosse il tuo futuro da ricercatore? Emozionante e ricco come lo è stato fino adesso… e se possibile impreziosito da qualche altro piccolo contributo alla conoscenza scientifica e alla cura dei nostri pazienti.

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